L’Artista o la sua tecnica

Posted in Filosofia dell'arte, Tecnica Vs Concetto on gennaio 27th, 2011 by Francesco

di Francesco Campoli

Nell’eterno bisogno di appiccicare etichette (tag se volete), ad ogni artista si cerca di appioppare un ruolo definito, un “confine” nel quale gli si concede di muoversi, gli si assegna il suo spazio.
Dalla necessità filologica e storica di “far ordine”, nella grande produzione dell’intelletto dell’uomo,  come al solito si è sconfinato nella solita distribuzione di patenti, con attribuzioni in pieno “conflitto di competenza”, sconfinati di ruolo che definirei razziste.
All’interno di quello spazio “assegnato”, al massimo si concede una “corrente”, nella quale incasellare un modo di comunicare, di concepire le proprie opere.
Iperrealismo, costruttivismo, cubismo, surrealismo, astrattismo, dadaismo e via discorrendo, non bastano come definizioni, si vuole rinchiudere l’artista nel ghetto di una Tecnica, Scultore, Pittore, Fotografo, Musicista, ecc. e poi si scopre che Michelangelo era scultore, si ma anche pittore, che Joan Mirò era un pittore ma anche uno splendido ceramista e scultore,

ceramiche di mirò

ceramiche di mirò

che Picasso noto perchè era cubista, ma guarda caso aveva una padronanza “del mezzo” paragonabile a Francisco Goya.

Picasso

Prima di essere Cubista

Tralasciamo Salvator Dalì, che “addirittura si permise” uno sconfinamento nel cinema, oltre alla fotografia, alla scrittura, alla scultura ecc.
L’esperienza nella “Settima arte”, avenne affiancando nientemeno che Walt Disney nel “corto” (come si direbbe ora), dal titolo “Destino”

Disney Dalì Destino

Una scena di "Destino"

nel quale non si può non riconoscere, la poetica e i “simboli” frutto della ricerca artistica del genio di Figueras.
Il fatto che il cinema sia chiamato la “settima” arte, presume addirittura un “ordine di apparizione”, delle tecniche espressive e non voglio neanche pensare,  che questa scala magari,  sia anche da intendere come scala di valori.
A mio modesto avviso solo un “ismo”, fu degno di essere menzionato nella storia dell’arte: il “Futurismo”.
Il Futurismo fù realmente  “Concepito”, meditato e poi declinato in tutte le tecniche possibili e immaginabili.
Ma questo è tutto un’altro articolo……..

Francesco Campoli

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Separazione tra arte e cultura

Posted in Filosofia dell'arte on gennaio 21st, 2011 by Francesco

di Francesco Campoli

Le accademie d’arte e i licei artistici italiani, sono come tutti gli altri enti del nostro paese.
Se si leggono i programmi non si può che restare soddisfatti, ma alla fine dell’iter proclamato, purtroppo i conti non tornano mai.
Nei nuovi programmi dei licei ad indirizzo artistico, si riconosce pienamente che l’opera d’arte che gli allievi saranno chiamati a produrre, sarà la “summa” di diversi “Layer” di competenze.
Si fa menzione di competenze “Umanistiche, Scientifiche e Tecnologiche”, si enuncia che l’opera abbisogna di un processo di progettazione, che deve tenere conto della fattibilità (tecnico-economica), della collocazione finale.
Si dice che va inquadrata nel contesto socio-culturale nel quale nasce, nella poetica personale dell’artista e allineata al suo cluster culturale e/o alle esigenze dell’eventuale  committente e mi fermo qui per non diventare noioso.
Non posso che constatare che tutte queste belle cose, sono incontestabili ma purtroppo rimangono assolutamente sulla carta.
Pur avendo poco da eccepire al fatto che un artista dovrebbe necessariamente avere una infarinatura gestionale, sociologica e comunicativa (per non formare un disadattato sociale come spesso invece avviene), devo però constatare che si perde completamente di vista l’aspetto concettuale.
Una visione del genere, che allineerebbe professionalmente qualsiasi artista ad un suo omologo professionista in qualsiasi altro settore, cozza con il tipo di formazione che molti docenti degli istituti ad indirizzo artistico hanno conseguito.
Nel loro approccio si intravede fin troppo l’ approccio “artigiano” di alcuni, l’approccio esclusivamente umanistico di altri, quello assolutamente artistoide di altri ancora.
Si continua a perpetuare l’errore di sempre nel nostro mondo artistico, di fondo in un artista si cerca il “talento”, che una persona per definizione possiede “per nascita”, come un titolo nobiliare e in fondo si considera la tecnica come un accessorio che fa rima con pratica.
Si creano istituti dove si insegna arte, nei quali al massimo viene insegnata la storia dell’arte.
Sono d’accordo che nella formazione di un artista italiano, non si può prescindere dal suo rapporto millenario con l’arte che permea il suo DNA, ma se non gli si insegna a gestirne l’influenza, lo si zavorra con tutta una stratificazione di “sedimenti artistici”, che possono offuscarne la creatività.
Non è raro riconoscere sulle opere di giovani artisti italiani, una patina concettualmente assimilabile a quella che offusca le nostre opere storiche, filtrandone la reale forza comunicativa.
Sono abbastanza in la con gli anni, per ricordare l’ ”unveiling ceremony” del “Giudizio Universale”, nella “cappella sistina” in Vaticano, restaurato da una troupe di “maestri del restauro” giapponesi, di riconosciuta eccellenza internazionale.
Alcuni “Soloni” dell’epoca (alcuni sono ancora sulla breccia), gridarono allo scandalo nel ritrovare i colori originali, stesi dal maestro incommensurabile Michelangelo.
La patina del tempo aveva offuscato la tavolozza del genio toscano.
La rimozione di quella patina e il consolidamento del supporto dell’enorme affresco, rimise letteralmente in luce, la cifra comunicativa voluta da Michelangelo.
Ci fu chi rimase scioccato dai quei colori intensi e brillanti come il pensiero del loro esecutore, protestarono per la scelta di rimuoverla completamente, pretendendo di far prevalere  la loro “critica”, sulle intenzioni pittoriche del maestro.
A mio avviso noi italiani debbiamo essere così bravi da liberarci della nostra storia, pur conservando nella nostra anima, la proiezione dei nostri giganteschi maestri.
I nostri maestri dell’arte moderna, talvolta hanno esagerato talmente nella tecnica, arrivando a crittare concetti e simboli sui quali costruivano le loro opere.
Non stento a credere che questo, sia avvenuto proprio per una sorta di smania, di liberarsi del peso della nostra storia.
In Italia non sarebbe mai potuto nascere un Andy Warhol, che partorisce la “Pop Art”, proprio sulle basi della poca stratificazione storica che caratterizza l’America (suo paese di elezione) e a maggior ragione dalle sue radici “Rutene” (popolo nomade tra Slovacchia/Ucraina/Polonia), che di certo non lo hanno seguito oltre oceano.
Il nostro patrimonio culturale (inteso quale genetico), è duro da scrollarsi di dosso, a meno di essere totalmente cechi o ignoranti.
La nostra cultura, purtroppo non insegue solo i nostri artisti, ma anche collezionisti e committenti, ma questo è tutto un altro articolo……..

Francesco Campoli

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Il “Valore” dell’arte

Posted in Il "Valore" dell'Arte on gennaio 18th, 2011 by Francesco

di Francesco Campoli

Con “valore” si può intendere il livello artistico di un’opera  in senso figurato, ma il vocabolo può essere inteso anche in senso letterale, cisa di per se assolutamente lecita, ultimamente però il valore al quale è “quotata”  un’ opera, sembra definire il “Valore” dell’artista.

Henrì Rousseau

Alcune opere di Henrì Rousseau

Questa mia riflessione, ha l’intenzione fin troppo malcelata di scoperchiare il Vaso di Pandora.
Una cosa che mi ha sempre colpito, è che il “mercato dell’arte”,  è sempre stato lontano da ogni più ragionevole valutazione economica, suddividendosi tra opere di valore “zero”, a fronte di opere dal valore immenso e l’universo che c’è in mezzo.
Purtroppo le prime, non rappresentano in senso stretto un “mercato”, (nessuno le vuole comperare), le seconde sono l’estremo limite alto di questo “mercato,” quindi l’espressione “Mercato dell’arte”, si può assimilare proprio con “quello che c’è in mezzo”.

Antonio Ligabue

Ligabue un esempio di artista fuori da logiche di mercato

Questo “Mercato”, da un pò di anni si è delineato come il peggior esempio, della più bassa delle accezioni di questo vocabolo di etimo prettamente economico:
Mercato deriva dal latino “mercāri”, mercanteggiare, acquistare commerciare, trafficare, e spesso e volentieri quest’ultima accezione, è quella che descrive nel modo più aderente, la filosofia con la quale questo commercio è praticato in questo specifico settore.
Per comprendere la mia posizione, non si può prescindere dal confronto con il mercato di frutta e verdura (che per carità ha una sua piena dignità).
Le valutazioni che si vedono tra le varie “bancarelle”, non hanno nessuna coerenza reale, con fattori di influenza esterna, quali la “disponibilità del prodotto o la qualità del medesimo, se proprio volessimo insistere nell’improprio parallelo.

opere di Camille Bombois

Alcune opere di Camille Bombois

Quasi mai  le quotazioni migliori vanno a favore dell’artista, infatti molto spesso, le opere crescono di valore con la morte dell’artista.
Non è affatto un caso, l’assenza dell’autore, lascia spazio ad esegesi fantasiose, allestimenti di mostre antologiche, senza il contraddittorio con l’autore.
Queste condizioni, consentono di realizzare utili “extra” da parte di galleristi e mercanti d’arte.
Tra le casistiche ne esiste anche un’altra molto quallida, nella quale il “valore” sale, a seguito del rilascio di “certificazioni di genio” che i vari “critici”, si sono attribuiti l’onore di rilasciare, con il consenso dell’autore medesimo che si adegua alle esegesi per puro mercimonio (a mio avviso perdendo di fatto lo status d’artista).
Guarda caso le “expertises” sulle opere, da parte di certi noti critici,   rappresentano per loro un’ottima fonte di reddito.
Siamo di fronte ad “esperti”, che si sono assunti il ruolo di “Deus ex machina”, senza che vi fosse nessun “Euripide” a conferirgli il ruolo, ma che semplicemente profittano della “necessità” degli acquirenti, di attestare il “valore” economico dei loro acquisti.
E’ proprio la complessità delle valutazioni che devono essere fatte, in ottica di “mercato” delle vacche, che ha generato la necessità di un ruolo terzo, una specie di “agenzia di rating”, che attribuisse “patenti” rassicuranti per acquirenti con poco “senso critico” personale, o meglio con poca sensibilità artistica.
Una volta esistevano i “mecenati”, o collezionisti e committenti colti e illuminati, opinion leader guidati dalla loro passione e dal loro senso artistico innato.
Non dobbiamo dimenticare che, molti dei più apprezzati musei di tutto il mondo, “discendono” dalla qualità di grandi collezioni private (Peggy Guggenheim un esempio per tutti), donate a fine vita da molti di questi collezionisti.
Fu proprio il disinteresse economico di queste persone, che ha generato e solidificato la nostra cultura (fin dall’antica Grecia), l’arte è senz’altro un “valore”, non certo un investimento economico, come molti galleristi vorrebbero far credere.
La situazione anomala che si è determinata, ha generato le ridicole condizioni attuali:
Vediamo artisti di primo “Valore” (in termini di contenuti), che non sono minimamente considerati, e “grandi critici” intenti pronti ad incensare i loro “beniamini”, meno che insulsi, che spesso e volentieri sono beniamini “ben paganti”.

André Bauchant

André Bauchant non sempre l'"etichetta" Naif viene attribuita correttamente

Personalmente non accetto il concetto di valore zero, come stento ad accettare valutazioni espresse in milioni di dollari (o di euro se preferite).
Ci sono opere senza mercato e opere che ne hanno uno, per semplici dinamiche commerciali.
Il reale valore dell’opera è figlio del percorso creativo intrapreso dall’artista, al quale si può aderire o meno dandogli quindi “personalmente” un valore), come viceversa.
Un opera per avere valore di ricerca, deve essere figlia di un progetto, meglio se dichiarato in anticipo dall’autore.
Questo eviterebbe che in assenza (o in carenza), di “scelte progettuali” dichiarate dall’artista ci si trovi di fronte ad “esegesi” fantasiose, costruite dai critici e dai mercanti d’arte, magari avallati dagli eredi, che ovviamente hanno i loro chiari motivi.
Una eccezione sono pronto a farla per gli artisti “detti” Naif, che della ingenuità (magari chimiamola meglio “inconsapevolezza”), hanno fatto il “contenuto” della loro arte, ma non per dei professionisti che fanno dell’arte il loro mestiere, dopo che magari si sono duramente “formati” per tanti anni.
Sempre di più viene fuori la necessità di distinguere chiaramente tra arte eartigianato, in entrambi le casistiche, si può parlare di “qualità” più o meno alta, ma mai e poi mai si potranno confondere.
Purtroppo la confusione su questi termini è sempre più presente, spesso anche a causa della competenza dei fruitori, che sempre più sono assimilabili a meri spettatori, l’arte invece ha un senso se in essa diventiamo attori.
Ma anche questo probabilmente è tutto un’altro articolo.

Francesco Campoli

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